Sicari e mandanti
Una dozzina d’anni fa lessi un interessante articolo fuori dal coro di Gian Luigi Falabrino che trattava del governo delle imprese, palesandone, con una stringente analisi, la sostanziale struttura feudale. Mi è tornato in mente mentre leggevo “Confessioni di un sicario dell’economia”, un libro impressionante di John Perkins uscito l’anno scorso per i tipi di Minimumfax. Negli anni seguenti all’articolo di Falabrino, infatti, questa struttura – questo vero e proprio ordinamento – non solo si è confermata nella continuità ma si è addirittura scandalosamente radicalizzata e, cosa assai più grave, si è diffusa, come per processo metastatico, in tutto l’organismo sociale, frantumando tutte le difese sindacali e politiche erette negli ultimi due secoli con i costi in termini di sacrifici e di vite che tutti sappiamo.
Cosicchè oggi è – si può leggerlo su tutti giornali – la normale forbice fra i moderni feudatari – i membri di quella casta che Perkins chiama «corporatocrazia» e i sociologi americani «business class» – e le moltitudini dei comuni mortali si è divaricata al limite della slogatura: il rapporto fra le retribuzioni dei primi e dei secondi è infatti passato da 27 a 1 nel 1973 a 300 a 1 nel 2002 (dove 1 resta sempre 1), per non parlare degli ultimi tre anni, in cui «le retribuzioni dei vertici delle grandi aziende sono aumentate dell’80%, mentre il reddito reale delle famiglie è quasi fermo».
E ora vengo a sapere, non da «Liberazione» o dal «Manifesto» ma dal «Corriere Economia» per la penna di Maurizio Ferrara, che la parola «business» è oggi associata ad una gamma sempre più ampia di servizi rivolti ai top manager e al loro entourage: rotte aeree in cui esiste solo la business class; piani separati negli alberghi di lusso, per le executive suites; società lifestyle consultancy, per la scelta di vestiti, eventi mondani o l’asilo per i figli; healthcare advise, per l’identificazione dei migliori ospedali e la prenotazione dei trattamenti; household management, per la gestione delle residenze di famiglia ecc. Ecco una rappresentazione chiara ed eloquente di una ostentata alterità e di una studiata separatezza. Ed èquasi superfluo sottolineare che gli appartenenti al nuovo ceto-casta hanno stretti legami tra loro, indipendentemente dal Paese di residenza e dalle propensioni politiche, e sono in grado di esercitare forte influenza sui leader politici.
Ma fin qui, tutto sommato, credo si possa dire che non c’è nulla di nuovo: la presenza di caste privilegiate, separate e chiuse è certificata in tutte le epoche e in tutti i sistemi politici della storia umana. Ciò che semmai lascia un po’ perplessi è come possa conciliarsi questa possente presenza in una società come la nostra che si definisce liberale e democratica. Non credo che Locke e Stuart Mill tollererebbero una cosa del genere. (A scanso di equivoci, chiarisco che quella che fin qui ho chiamato casta non ha nulla a che vedere con la classe, o ceto, dirigente, che considero non solo necessaria ma che, in ogni società ben strutturata, dovrebbe essere consapevolmente prodotta.)
C’è poi il grande interrogativo: questa corporatocrazia dove attinge le risorse finanziarie per alimentare le proprie megaretribuzioni, le proprie liquidazioni fantastiliardiche, le stock option (per giunta retrodatate), i benefit? E’ una domanda che dovrebbe sorgere spontanea ma che, guarda il caso, non si pongono nè i maggiori giornali, nè le principali Tv, nè la grande editoria, ad eccezione di qualche encomiabile tentativo della Gabanelli (ma su una rete minore Rai) e di qualche sicario pentito dell’economia come il sunnominato Perkins (ma pubblicato da un piccolo editore). Forse perché «i funzionari e i direttori che controllano quasi tutti i nostri mezzi di comunicazione sanno stare al proprio posto? dato che per tutta la vita è stato loro insegnato che uno dei compiti più importanti è perpetuare, rafforzare ed espandere il sistema che hanno ereditato» (op. cit., p. 303).
Eppure non è difficile trovare le risposte, nemmeno per un profano come il sottoscritto.
I modi di approvvigionamento variano, ovviamente, a seconda degli scenari economici che si presentano, cioè se ci si trova in una fase di crescita o di boom, o se al contrario si è in una fase di recessione o di crisi; dando per scontato che l’approvvigionamento deve essere costante e indipendente dagli alti e bassi del Pil e del disavanzo.
Nel primo scenario, la via maestra è l’accumulo e l’occultamento dei capitali. Le procedure sono note: si mantengono bassi il costo del lavoro e del welfare, si mantiene sostenuto il prelievo fiscale sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (gli unici che non possono evadere); si investono gli utili (ma anche i prestiti) in speculazioni finanziarie e immobiliari invece che redistribuirli o reinvestirli nell’innovazione e nella ricerca; si sparpagliano i capitali cos’ accumulati nelle cosiddette scatole cinesi o, meglio ancora, si occultano nei paradisi artificiali sulle isolette del Pacifico. Eccetera.
Nel secondo scenario, alla strategia appena descritta, che resta operativa, si aggiungono: una ulteriore riduzione del costo del lavoro mediante il taglio del personale dipendente (mobbing, licenziamenti), scaricandone una buona parte del costo sullo Stato (Cig e prepensionamenti), sfruttando oltre ogni limite il lavoro precario; aumentando la tassazione indiretta (tariffe, oneri postali, bancari e assicurativi ecc.); attingendo ai salvadanai dei piccoli risparmiatori (per intenderci, quelli che cercano di mettere al sicuro la loro modesta liquidazione) collocando fondi di fatto improduttivi o addirittura truffandoli rifilando loro azioni e bond di società in bancarotta (azioni del Banco Ambrosiano, bond argentini, Cirio, Parmalat ecc.).
Ma l’ultima trovata per incrementare in modo significativo l’accumulo di capitali, pur in presenza di una crisi economica, è quella, davvero raffinata e «creativa», delle cartolarizzazioni, inventata dall’ineffabile supercommercialista Tremonti. Vale la pena di analizzarla nel dettaglio, perchè probabilmente si tratta della più grande e spudorata rapina degli ultimi decenni.
I fatti sono noti: il Governo Berlusconi (2001-2006) “ personaggio notoriamente consanguineo della corporatocrazia italiana “, per fare cassa vende una parte consistente del patrimonio immobiliare e demaniale dello Stato. Trattandosi, prevalentemente, di grandi lotti non certo alla portata dei cittadini in cerca di casa, a fare l’affare sono alcuni grossi immobiliaristi (più o meno furbetti), finanziati da alcune banche (più o meno furbette), i quali, dopo aver frazionato e ristrutturato alla bell’e meglio gli immobili acquistati a prezzo di saldo, li rivendono al prezzo di mercato realizzando immensi guadagni.
Come dicevo, tutto ciò è noto e documentato dai media, che nei loro commenti, al più, si limitano a deprecare blandamente il carattere speculativo e parassitario dell’operazione.
Quello che, pur essendo altrettanto noto, non viene evidenziato nè denunciato (a parte la solita Gabanelli, in seconda serata) è per l’appunto l’aspetto più grave e deleterio – stavo per dire criminale – della faccenda. Infatti si trascura di avvertire che una considerevole parte degli immobili venduti non era propriamente di proprietà dello Stato, bensì di vari enti previdenziali (Inadel, Inpdap, Inps ecc). Considerando che tale patrimonio è stato costituito, nei decenni in cui la vita media era più corta e gli occupati erano molto più numerosi dei pensionati, investendo negli immobili l’avanzo contributivo prodotto dai lavoratori dipendenti, ne consegue che il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali dovrebbe essere considerato, a tutti gli effetti, una riserva patrimoniale inalienabile se non in caso di necessità e a solo vantaggio di detti lavoratori.
E il caso di necessità , immancabilmente, si è presentato, una quindicina d’anni fa, allorchè l’invecchiamento della popolazione e un calo dell’occupazione hanno prodotto uno sbilancio fra contributi e pensioni erogate che durerà fino al 2030-35, quando andranno in pensione gli ultimi figli del baby boom.
Ecco a cosa doveva servire l’immane patrimonio immobiliare degli enti previdenziali! Proprio a coprire, se non tutto in buona parte, questo mezzo secolo di sbilanci.
Invece no. Il feudo sceglie la rapina, i lavoratori lavorino più a lungo e per la pensione si arrangino coi fondi, che sono una gran bella invenzione.
Detto questo, non resta che tirare le obbligate dolorose conclusioni.
Le tattiche e le strategie qui appena tratteggiate spiegano perchè i corporatocrati contemporanei, intesi come casta – versione aggiornata del sempiterno feudalesimo -, non affondano mai (a parte qualche furbetto che sgarra).
Dato il carattere metastorico di questo sistema di potere e la sua capacità di adattarsi a qualsiasi forma di governo storicamente data, è da ritenersi velleitario ogni tentativo di sconfiggerlo e abolirlo (la storia insegna).
Da questo sistema ci si può solo difendere. Una difesa che è stata abbastanza efficace, in Occidente, a partire dalla metà dell’Ottocento fino agli 80 del secolo scorso, grazie alle organizzazioni sindacali e politiche, partecipate, dei lavoratori. Una difesa oggi purtroppo frantumata dalle delocalizzazioni, dalla precarizzazione, dal ricatto occupazionale e in ultima analisi dallo sfregio inferto a valori antichi come la dignità del lavoro e della persona.
Ne consegue, se vogliamo fermare la deriva che ci sta portando verso una generalizzata anomia, alla perdita di ogni identità , a un supersfruttamento svuotante ecc., ne consegue la necessità inderogabile di ricostituire, in modo partecipato e organizzato, opportune e adeguate difese.
Lelio Scanavini (2007)
1. A questo proposito è interessante notare il fatto che, per nominare questi gruppi umani, in Europa disponiamo di due lemmi: classe (Marx) e ceto (Weber); mentre gli americani ne hanno uno solo: class.
2. Dati forniti da Maurizio Ferrara in La business class, «Corriereconomia» 20.11.06.
3. Massimo Mucchetti, I manager-Creso e il nuovo «social divide», in «Corriereconomia» 8.01.07
di Lelio Scanavini