09. Ricordando Allende, il Vietnam, distinguendo giustificando
Segue
Ritiene possibile che le istituzioni popolari che sempre si formano, almeno in embrione, nella lotta rivoluzionaria, alla fine prevalgano?
Che continuino ad esistere e riescano a dar vita a una struttura abbastanza solida e stabile da poter resistere agli attacchi esterni, o alla sovversione fomentata dall’esterno, o a quella interna di tipo leninista totzkista, come avvenne dopo il colpo di stato bolscevico del 1917? Non credo che le prospettive in questo senso siano rosee, nel mondo reale, nel mondo com’è.
E’ facile dire il contrario, ma non è altrettanto facile indicare possibilità realistiche. E’ facile, per esempio, dire che quello che occorre è la democrazia, ma è meno facile affrontare il fatto indiscutibile che la democrazia è quanto meno limitata allorchè le risorse sono concentrate in poche mani e le decisioni finali in fatto di investimenti sono prese dai privati, con tutte le conseguenze che ne derivano per l’azione politica e l’influenza ideologica.
Sotto questo punto di vista il marxismo classico poteva aver ragione nel ritenere che qualsiasi vero progresso verso una società più libera e democratica avrebbe potuto compiersi soltanto nei paesi industriali più avanzati. Quando gli anarchici e altri libertari criticano – e ne hanno pienamente diritto – le società rivoluzionarie del Terzo Mondo, la loro critica dovrebbe prendere in considerazione i problemi specifici che si devono affrontare in un mondo reale dominato dal terrorismo e dalla violenza di Stato.
Almeno negli anni Sessanta c’era la speranza che gli appartenenti al mondo occidentale potessero imparare qualcosa dal terzo mondo, oltre a capire come gli Stati Uniti operino su scala globale. Lei pensa che sia ancora così?
Ovviamente, si può imparare da chiunque. Per esempio, credo che possiamo imparare molto dagli operai e contadini della Spagna rivoluzionaria, che negli anni Trenta era così simile a una società terzomondista.
Quanto ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo negli anni sessanta, non ho mai creduto che potessero fornire insegnamenti utili ai socialisti dell’Occidente. Dovevano affrontare problemi che noi non abbiamo, anche prescindendo dai problemi degli attacchi dall’esterno e da quelli del consolidamento nazionale all’interno. Noi non abbiamo il problema di creare una società industriale nelle difficili condizioni prevalenti in gran parte del Terzo Mondo. Ancora una volta, i libertari onesti dovrebbero ammettere questi fatti.
Consideriamo la Guerra del Vietnam. Alla fine degli anni sessanta gli Stati Uniti avevano chiaramente conseguito il loro obiettivo principale. Avevano distrutto il Fronte di liberazione nazionale del Vietnam del Sud e il Pathet Lao nel Laos, facendo sì, come scrissi a quell’epoca, che in Indocina potessero sopravvivere, al massimo, le forze politiche più dure e autoritarie. Per gli aggressori americani era stata una grande vittoria. Gli oppositori politici della guerra americana nel Vietnam erano stati quindi messi nella condizione di dover difendere, in realtà , l’unica resistenza rimasta in Vietnam, rappresentata appunto dai gruppi autoritari sostenitori del socialismo di Stato. Io credo che non esistesse una sola ragione per non opporsi all’intervento americano in Vietnam, ma credo anche che questa sia stata la ragione per cui molti anarchici non poterono necessariamente gettarsi nella lotta antibellicita con l’energia e lo spirito di partecipazione che avrebbero potuto animarli.
Alcuni lo fecero, ma altri non seppero decidersi, data l’ostilità che avevano concepito contro il regime che sapevano si sarebbe imposto alla fine, così come lo sapevo io. All’interno dei gruppi del movimento per la pace, come molti ricorderanno, cercai di dissociare l’opposizione alla guerra americana da qualsiasi sostegno al capitalismo di Stato che sarebbe emerso in Vietnam. Ma non era facile, su questa base, avviare una seria opposizione all’aggressione imperialista, con i gravi rischi personali che ciò comportava.
Tale atteggiamento andava bene per quelli che guardavano stando da parte e limitandosi a storcere il naso in segno di biasimo, ma le cose erano ben diverse per le persone, soprattutto giovani, che cercavano di fare qualcosa per metter fine a tutte quelle atrocità .
Il movimento antibellicista americano, almeno in parte, finì¬ in realtà con il diventare nettamente provietnamita, nell’illusione non solo di combattere contro la guerra americana, ma anche di difendere la visione di una migliore società nata in Vietnam…”
Nota: L’intervista in corso di pubblicazione è tratta dal volume: “Linguaggio e Libertà ” – dietro la maschera dell’ideologia – di Noam Chomski – Net edizioni –