04. La formazione delle opinioni politiche
Che cosa faceva nel kibbutz? Ne trovava stimolante l’attività intellettuale? E perchè lo abbandonò?
Tenga presente che il mio soggiorno durò solo quattro settimane, più o meno. Essendo del tutto inesperto, non potevo fare altro che il bracciante agricolo, sotto la guida dei membri permanenti. In realtà il lavoro mi piaceva molto, anche se non so per quanto tempo ancora mi sarebbe piaciuto. Quanto alle attività intellettuali, il kibbutz era formato principalmente da seguaci del filosofo Martin Buber, ebrei tedeschi di buon livello culturale.
Una delle persone che conobbi, tuttavia, era un cristiano immigrato che aveva abbandonato una grossa azienda agricola in Rhodesia per l’odio che gli ispirava il razzismo imperante: era un agronomo di prim’ordine, pieno di idee nuove.
C’era gente interessante, dunque, ma l’ambiente aveva qualcosa di irreale. Era il 1953 all’epoca dei processi contro Slansky in Cecoslovaccia, nelle ultime fasi della follia stalinista. Le ultime purghe attuate dal dittatore avevano una forte componente antisemita, ma c’era gente nel kibbutz che le giustificava. Giustificavano perfino il processo contro un loro compagno che era andato in Cecoslovacchia come emissario del kibbutz ed era stato accusato di spionaggio, cosa che sapevano benissimo essere falsa.
Non tutti si comportavano a quel modo, naturalmente. Ma quelli che si occupavano di politica erano marxisti leninisti ortodossi, e non osservai in loro alcuna deviazione apprezzabile dalla rigida linea del partito. Anche se potrebbe esserci stato qualcosa di cui non venni mai a conoscenza.
Insomma, fu un soggiorno breve, e tornai ad Harvard, ripromettendomi di tornare in Israele dopo pochi anni, magari per stabilirmici definitivamente. Il periodo in cui avevo diritto a godere dello stipendio della Society of Fellows di Harvard sarebbe scaduto nel 1954, ma non avevo alcuna prospettiva di lavoro stabile e perciò chiesi il prolungamento di un anno, che mi fu concesso.
Nel frattempo, mia moglie tornò al kibbutz per una seconda visita, più lunga. Avevamo in animo di trasferirci stabilmente là, ma poco dopo mi fu assegnato un posto di ricercatore al Massachussetts Institute of Technology, e fui molto preso dal mio lavoro di linguistica. Per una ragione o per l’altra, senza alcuna decisione consapevole, il progetto andò in fumo, e non tornai più al kibbutz.
Prima di andare in Israele, aveva svolto attività in organizzazioni politiche in America?
Non ero affiliato ad alcun gruppo, sinistra sionista o altri. In parte perchè non ho molto spirito gregario, immagino. Inoltre, tutte le organizzazioni di cui conoscevo l’esistenza, almeno quelle di sinistra, erano leniniste, o staliniste o trotzkiste. Già allora, ero profondamente antileninista e non vedevo in giro alcun gruppo che condividesse le mie idee. Quello che ho detto era vero per la sinistra sionista ma anche, a quanto ne so, per gran parte della sinistra americana a quell’epoca. Parliamo dei primi anni quaranta. E io non vedevo alcuna differenza significativa fra trotzkisti e stalinisti, se non che i primi avevano perso. Una differenza importante, senza dubbio. Sì, alcune differenze ci sono, ma in fondo le sentivo come esagerazioni. Così pensavo allora, e sostanzialmente penso tuttora. Quindi non v’era alcun gruppo cui potessi aderire. Benchè fossi molto interessato a gran parte degli avvenimenti politici.
La sua era una famiglia che si occupava di politica? Discutevate di politica in casa?
Be’, i miei genitori erano normali democratici roosveltiani, si occupavano con passione degli affari ebraici, erano sionisti e coltivavano la cultura ebraica, auspicavano la rinascita dell’ebraico come lingua viva, e in genere amavano quel sionismo culturale che aveva origine nelle idee di persone come Ahad Ha-â˜am, che sempre più ispiravano la maggioranza dei sionisti. Quanto ai parenti meno prossimi, zii e cugini e così via, appartenevano in buona parte alla classe operaia. Molti di loro erano comunisti o filocomunisti, e tutti erano impegnati in politica, durante la Grande depressione. Uno zio, in particolare, ebbe grande influenza su di me sul finire degli anni Trenta e anche oltre. A quell’epoca aveva a New York un’edicola che era una specie di centro politico radicale. A volte stavamo in piedi tutta la notte a discutere o a litigare su questo o quel problema, lì intorno all’edicola o nel suo appartamentino, che si trovava nelle vicinanze.
In quegli anni i grandi momenti della mia vita erano le volte che potevo lavorare nell’edicola di notte e partecipare a quei dibattiti.
In che parte della città ?
All’angolo della Settantaduesima con Brodway, ammesso che ci sia ancora. C’erano due edicole, sul tratto di strada che la gente percorreva uscendo dalla stazione della metropolitana, sul lato della Settantaduesima. E ce n’erano altre due dall’altra parte, da dove usciva ben poca gente.
Mio zio aveva una di queste due. Intellettualmente la sua era una vita molto intensa, ma in fatto di soldi, credo che, vendendo giornali, ne facesse pochi. Sul finire degli anni trenta, l’edicola divenne una sorta di luogo di raduno di immigrati e profughi dall’Europa. Lo zio era passato attraverso le varie sette del comunismo di allora, staliniste, trotzkiste, antileniniste. E io lì imparavo a conoscerle tutte. Era una comunità intellettuale molto vivace.
La classe lavoratrice ebraica di New York aveva caratteristiche non comuni. Era molto intellettuale e molto povera: molti erano disoccupati e molti vivevano in tuguri. Ma erano ricchi di idee: si discuteva di Freud, di Marx, del Quartetto d’archi di Budapest, di letteratura e altro. E’ stato l’ambiente culturale che maggiormente mi ha influenzato da adolescente.
Fu anche educato secondo certi aspetti della tradizione culturale ebraica?
Ero completamente immerso nella tradizione culturale ebraica. Probabilmente feci più letture in quel campo che in qualsiasi altro finchè non ebbi quindici o sedici anni.
Raramente, tuttavia, ha attinto a quella tradizione nei suoi scritti. C’è qualche ragione particolare?
No; solo che non mi pareva pertinente a ciò di cui trattavo. C’è, voglio dire, e sicuramente ha esercitato su di me un’influenza notevole. Per esempio, il brillante narratore yiddish del XIX secolo, Mendele Mocher Sfarim, che descrive la vita quotidiana degli ebrei nell’Europa orientale, possedeva un istinto letterario e una capacità di approfondimento eccezionali. Sarebbe riduttivo definire la sua letteratura come proletaria, perchè descrive e fa comprendere la vita della povera gente mescolando abilmente umorismo, compassione e cinismo. Lessi anche non poche opere della cosiddetta Rinascenza ebraica del XIX secolo: romanzi, racconti, saggi, poesie. Non saprei dire quali effetti a lungo termine quelle letture abbiano avuto su di me. Sicuramente ebbero un forte impatto emotivo.
Nel suo pensiero si notano certe intuizioni circa la società e gli intellettuali che l’hanno accompagnata per tutta la sua vita. Così, lei non sembra sorpreso di cose che spesso scandalizzano altri. Non si scandalizza del fatto che certi intellettuali svolgano compiti ideologici al servizio di uno Stato: lei sembra aspettarsi un comportamento del genere. Non si sorprende allorchè, in America, il potere si ammanta di idealismo per nascondere il perseguimento di interessi materiali: da questo tipo di potere lei se lo aspetta. E così via. La sua visione delle cose non sembra tanto derivare da una lunga osservazione storica, quanto dalla consapevolezza intuitiva del modo in cui ci si può aspettare che le cose funzionino.
Penso di esser sempre partito da questo presupposto, che mi sembra discenda dalle più semplici e indiscusse conoscenze correnti circa le motivazioni, gli interessi e la struttura stessa del potere.
E tuttavia in qualche modo queste sue considerazioni fanno infuriare certuni nei confronti della sua opera. I suoi scritti secondo loro vanno rigettati senza appello perchè se la gente li leggesse, loro sarebbero costretti a scrivere a proposito degli Stati Uniti cose molto diverse da quelle che scrivono.
Be’, è interessante che nessuno si infurii quando scrivo le stesse cose sui nemici degli Stati Uniti. Ma è anche ovvio. Si offendono quando cerco di dimostrare che certi tipi di comportamento vergognosi sono riscontrabili anche nella nostra società , come lo sono in realtà . Se avessi parlato a un pubblico di intellettuali russi, si sarebbero offesi perchè non avrei capito nè riconosciuto l’idealismo e l’impegno per la pace e la fratellanza umana di cui si dichiarava alfiere lo Stato sovietico. E’ così che funzionano i sistemi di propaganda in generale.
Ma lei si domanda perchè tanta gente condivida certi presupposti ideologici che lei non ha?
Be’, forse in parte il motivo è che in un certo senso io sono cresciuto in una cultura straniera, nella tradizione ebraico-sionista, in una comunità , per così dire, di immigrati, anche se altri hanno reagito in modo assai diverso alle condizioni in cui mi sono trovato io. Inoltre, suppongo che dipenda dal fatto che sono figlio della Grande depressione. Fra i miei primi ricordi, molto vividi, ci sono quelli di gente che bussava alla nostra porta per vendere stracci, dimostrazioni e scioperi repressi dalla polizia con la violenza, e altre scene tipiche di quel periodo. Per non so quali ragioni, fui poi molto colpito dai grandi eventi degli anni trenta, come la Guerra civile spagnola, e questo benchè avessi appena imparato a leggere e a scrivere, in pratica. Il primo articolo che scrissi fu un editoriale nel giornale della scuola sulla caduta di Barcellona, poche settimane dopo il mio decimo compleanno. Mi impressionò moltissimo anche l’ascesa del nazismo, e l’impressione fu certo resa più intensa dal fatto che eravamo in pratica l’unica famiglia ebrea in un quartiere di irlandesi e tedeschi cattolici e accaniti antisemiti dove si sostenne apertamente il nazismo fino al dicembre del 1941.
Eppure gli intellettuali newyorkesi sono diventati la punta di diamante di un virulento anticomunismo che nega quasi tutte le considerazioni da cui lei prende le mosse chiamandole di “buon senso” .
Credo che in parte, nel mio caso, l’età possa essere stata la mia fortuna. Ero appena un po’ troppo giovane per aver mai avuto la tentazione di diventare un leninista impegnato, per cui non ho dovuto affrontare nè la rinuncia ad alcuna fede, nè alcun senso di colpa o di tradimento. Sono sempre stato dalla parte dei perdenti: gli anarchici spagnoli, per fare un esempio.
Guardando indietro, lei giudica tutto questo eccezionale?
Sì, certo. Non sono mai stato in sintonia con nulla, o quasi nulla, di ciò che mi circondava. Come ho accennato, non ho mai aderito a gruppi politici di qualsiasi natura, a causa del forte disaccordo e dello scetticismo che nutrivo nei loro confronti, anche se sentimentalmente mi attiravano gruppi giovanili come lo Hashomer Hatzair, che a quel tempo professava un sincero impegno per l’stituzione di una entità binazionale in Palestina e per i valori del Kibbutz, così come per la cultura ebraica alla quale fondamentalmente appartenevo.
Rimasi poi piuttosto scettico per ciò che riguarda la Seconda guerra mondiale. Non ho notizia di altri che abbiano condiviso questo scetticismo, davvero nessuno. Mi ricordo che frequentavo la biblioteca pubblica di Filadelfia eravamo nel 1944 o 1945, quando avevo sedici o diciassette anni – a leggere stranissimi opuscoli di “sette” di sinistra, di gruppi come i marleniti (lei probabilmente non ne ha mai sentito parlare), i quali volevano dimostrare che la guerra era “fasulla”, nel senso che era una manovra voluta dai capitalisti dell’Occidente, in combutta con i capitalisti di Stato del sistema sovietico, mirante a distruggere il proletariato europeo. Non prestavo veramente fede a questa tesi, ma la giudicavo abbastanza curiosa da cercare di capire dove andassero a parare quei discorsi. C’era nelle asserzioni dei marleniti qualcosa di abbastanza plausibile da rendermi scettico circa gran parte dell’interpretazione patriottica della guerra. Ricordo anche quanto mi indignò il trattamento riservato ai prigionieri di guerra tedeschi. Ve n’erano alcuni in un campo adiacente alla mia scuola, ed era considerato “da uomini” insultarli e provocarli attraverso il filo spinato. Lo giudicavo allora una cosa vergognosa, benchè fossi molto più antinazista di tanti di quei ragazzotti che si dilettavano di quello sport. Ricordo le liti che avevo con loro.
Ricordo anche che il giorno in cui sganciarono la bomba su Hiroscima non riuscii letteralmente a rivolgere la parola ad alcuno. Non vidi nessuno, peraltro. Me ne andai a camminare in perfetta solitudine. Mi trovavo in un campeggio estivo, e quando ascoltai la notizia me ne andai nel bosco e restai solo per un paio d’ore. Non parlai con nessuno e in seguito non capii mai le reazioni di nessuno. Mi sentivo completamente isolato.
Quanto alle cose nelle quali ero direttamente impegnato come i problemi sionistici, la posizione che assunsi, anche se non ero certo l’unica persona al mondo ad assumerla, era tuttavia ben lontana da quella dominante. Era comunque una posizione che godeva di un qualche credito e di un certo sostegno anche nel movimento sionistico, ed era assai diversa da quella dei movimenti che andavano per la maggiore, tranne gli stalinisti e i trotzkisti. Ma questo erano esclusi per me, e non potei aderirvi.
Non ricordo a quanto tempo fa risalga la cosa, ma so che, fin da quando ebbi una briciola di consapevolezza politica, mi sentii sempre solo o parte di una esigua minoranza.